Milano di nascosto
Marco Di Capua
Ci siamo mai chiesti perché la città, nel tempo, non abbia visto nemmeno intaccare la sua enorme riserva di fascino esercitata sugli artisti? Per questi sembra infatti continuare ad essere un magnete dalla forza di trazione irresistibile. Magari simile a quella di un pianeta metallico, pietroso, ostile. Forse addirittura pericoloso. E tuttavia ne siamo certi: gli artisti non la molleranno mai una scena così. Su quel pianeta atterreranno sempre. Piantando bandierine, scattando foto, puntando videocamere, prendendo appunti, lasciando orme. E dipingendo quadri, ovviamente. Guardate l’arte del XX secolo: tra i suoi più bei dipinti forse ci sono proprio quelli con paesaggi urbani. Tanto che noi, sporgendoci dall’esile balconata di questo primo 2000, finiamo ancora col sentirci i devoti nipotini di Ludwig Kirchner, Mario Sironi, Edward Hopper. Di fatto, anche per rispondere alla domanda così improvvidamente posta all’inizio, c’è che la rappresentazione della città, di ciò che senza paragoni appare come il più vasto, mutevole e spettacolare congegno estetico inventato dall’uomo (in un’armonica divisione dei compiti, chiaramente percepibile dall’alto, magari dall’oblò di un aereo: se Dio ha creato il cielo e la terra, noi abbiamo creato le metropoli) evidentemente appaga un nostro bisogno di purezza, di esattezza formale, di struttura, di ordine compositivo, di ritmo geometrico, di connessione tra il nostro culto delle immagini e un certo tipo di bellezza astratta. E di vuoto. Il che è abbastanza paradossale, il vuoto, voglio dire. In effetti pensateci, la Città Dipinta di primo ‘900 era spesso un’instancabile marcia battuta sulle pietre, un intaso di masse gettate sull’asfalto o all’assalto, metafora o incubo o utopia di folle, follie, ideologie. Metropolis. Anche quando l’uomo non compariva, tutto parlava di lui, e ogni centimetro quadrato della tela ne era inquietamente saturo. Oggi, nell’occhio di celebri fotografi e di così tanti pittori la scena urbana appare nuda, spoglia, architettura evacuata. L’opera di Alessandro Russo si inserisce perfettamente in questo flusso di figure dove l’immaginazione, in gran parte liberata dai corpi e dalle voci – a meno che non chiamiate corpi quel formicolante brulichio di piccoli segni neri che talvolta qui appare - metodicamente scorre lungo le linee e le strade del piacere visivo contemporaneo. Andando velocemente contromano a quanti, magari proprio in questo momento, stanno riprendendo i propri abbracci e sorrisi, intasandone i social, Russo sa fare a meno del desiderio di esserci. Lui sembra uno che passa lateralmente, che si apposta senza dar fastidio a nessuno, spesso ad altezza d’uomo, anzi ad altezza di marciapiede, come un cecchino dalla mira infallibile, un colpo un bersaglio: accidenti, della traiettoria del colpo ti sembra di vedere anche la traccia, ne percepisci forza d’urto, velocità, la traccia in diagonale che ora attraversa, taglia e fa a fette il quadro. O se no, ecco la città vista acrobaticamente dall’alto, dalla fly zone di un drone sorvolante cuspidi, volumi, angoli, profondità. D’altra parte: guardare con la massima intensità possibile, senza essere visti, così fanno i pittori. È una prospettiva di visione utile, interessante, giacché completamente priva di vanità, e però potenzialmente ricca di splendore. Chissà, amiamo la Città Dipinta anche perché siamo un po’ stanchi di noi stessi? Gente, fate largo allo sguardo! Un pittore è un animale specializzato, non vive ovunque, cerca l’habitat più adatto a sè, alle proprie cacce di spazi e bagliori, e se lo trova è felice, felice a modo suo, e non ne cerca altri. Forse, nell’alternarsi di eventi che di volta in volta riferiamo al caso oppure al destino, non siamo nemmeno noi a raggiungere certi luoghi, ma sono loro a venire da noi. Comunque: Milano è da anni il luogo di Russo, la scena che riempie instabilmente i suoi occhi. Instabilmente riempì, un secolo fa, anche gli occhi di un altro artista che, nato in Calabria (lui per caso, però), cercò e trovò gloria a Milano. Stiamo parlando di Umberto Boccioni. E che si trattasse di una Roma calcinata tra i cantieri, o di una Milano delle officine, immersa in un rorido, ottimistico mattino tutto coriandoli e scoppi di luce, per lui la città, traballando, saliva. Adesso che, con i suoi grattacieli, Milano sale anche più di allora, un sensibilissimo pittore calabrese non può che osservarne e catturarne, con la sveltezza e la drasticità con cui solitamente afferriamo ciò che potrebbe svanire da un momento all’altro, l’opalescenza essenziale, lo slancio di una sua speciale iridescenza grigia, come generata da nebbie e vapori, qua e là trafitta da lampi e graffi e placche di colori purissimi. L’esultanza futurista non c’è più? Ammettiamolo, e d’altronde come potrebbe? Tuttavia persiste sempre una certa sensazione, anche in questi dipinti: la città ti sembra che appaia per la prima volta, bella e spettrale, come in un’alba qualsiasi. In fondo così si rafforza la consapevolezza di un’appartenenza intimissima, perché questo è il posto giusto, ti ripeti, dove proteggere la nostra capacità di contemplazione e, riscoprendola come una condizione adulta e felice – o almeno senza soffrirne -, la nostra solitudine. Credo che i paesaggi milanesi di Russo possano davvero piacere a chi ogni volta, di nuovo, scopre come intensamente poetiche le strade che noi viandanti e flaneurs metropolitani attraversiamo; o anche a quanti, non trovandole poi troppo poetiche, in ogni caso stentano ad individuare il loro personale salvavita estetico nel numero di animali uccisi da Damien Hirst, o, gettandovi un occhio svogliato, nell’inutile spiritosaggine di Maurizio Cattelan. E allora continuano inevitabilmente a guardare quel luogo, quelle strade e quelle parti di città, con la medesima inclinazione al turbamento, e perfino alla melanconia che scaturiscono proprio da quadri così. Domanda: alla fine, cos’è che, qui, ancora ci attrae? Risposta con breve elenco: questa prospettiva tiratissima in uno scialo di flash blu-rosso-gialli, che fa assomigliare la Stazione Centrale, la sua volta ferrosa e i suoi binari a una galleria sotterranea, di quelle che i fisici costruiscono per i loro esperimenti, dove ogni scontro e botto tra particelle in corsa è una meraviglia. E poi questo Duomo scorticato, che mai si sarebbe detto di poter rivedere in un quadro (vergogna per chi non sa o non vuole più dipingere facciate di chiese!) e che invece qui appare spavaldamente imprevisto, viva presenza nata da un gesto di devozione laica, o forse da un incontro procrastinato, chissà, perché probabilmente è così che la chiesa di Santa Teresa di Lisieux apparve ad Andreas, nel romanzo di Joseph Roth. Ma vedete come vaga, simile a un clochard, la mente di chi attraversa la patria delle arti? Non faccio in tempo a seguire la linea R che misteriosamente porta da Russo a Roth, che già, più lecitamente, mi viene incontro chi dello scrittore austriaco fu talmente contemporaneo da condividerne persino la scena finale, mentre di Alessandro si presenta come un lontano progenitore: è quel Maurice Utrillo che radente a pochi muri bianchi rese indimenticabile la sua desertica Parigi. In ultimo, svettanti su tralicci di graffi e segni, mi colpiscono tutti questi edifici alti e solitari, questi ombrosi, bluastri solidi sfaccettati, incerti se svanire oppure no, se annullarsi o resistere. Ce ne sono parecchi nel lavoro di Russo, quasi una sua firma. Si ergono ardimentosi e scuri, profilandosi sul chiarore latteo del fondo, sull’evanescente linea dell’orizzonte: sono le nostre mansuete torri di guardia, sentinelle indecifrabili, dunque le più adatte a noi, invisibili passanti.
Hidden Milan
Marco Di Capua
Have we ever wondered why the city, throughout time, has never waned in the enormous fascination it holds for artists? In fact, it seems to be a magnet with an irresistible traction force, similar to a metallic, stony, hostile planet. Maybe even a dangerous one. And yet we are certain: artists will never abandon such a scene. They will always land on that planet. Planting flags, taking photos, pointing videocameras, leaving footprints. And painting pictures, obviously. Let’s look at art from the nineteenth century: among its most beautiful paintings are the urban landscapes. So much so that, before 2000, protruding from the frail balcony, we still feel the devoted grandchildren of Ludwig Kirchner, Mario Sironi and Edward Hopper. In fact, even answering the unexpected question posed initially, it is the city which without comparison is the widest, most variable and spectacular aesthetic device invented by man (in a harmonious division of tasks, clearly visible from above, perhap from the porthole of an airplane: if God created heaven and earth, we created the metropolis). The city evidently fulfills our need for purity, formal accuracy, structure, compositional order, geometric rhythm, a connection between our cult of images and a certain type of abstract beauty. And emptiness. Which is quite paradoxical, the void. In fact, the Painted City of the early twentieth century was often a tireless march on stone, a massive inlay on asphalt or of asphalt, metaphor or nightmare or utopia of madness, follies and ideologies. Metropolis. Even when man was not apparent, everything spoke about him, and every square centimeter of the canvas was restlessly saturated. Today, in the eye of famous photographers and many painters, the urban scene appears a nude, bare and evacuated architecture. Alessandro Russo’s work fits perfectly into this flow of figures where imagination, largely free from bodies and voices, - unless one defines the teeming tumults of small black marks that sometimes appear on canvas as bodies - methodically adheres to contemporary visual pleasure. Going in the opposite direction of many, obstructing society and human behavior (i.e. hugs and kisses) as it were, Russo depicts the scene without displaying the desire to be there. The artist appears as one who passes laterally, placing himself where he bothers no one, often at the height of man or even at sidewalk height, where like a sniper with an infallible aim he has a target shot. In the trajectory of the brushstroke, you seem to see also the track and perceive the force of impact, speed and diagonal track that now crosses, slices and makes pieces of the picture. Or if not, here is the city seen acrobatically from above, from the fly zone of an overlooking drone: cusps, volumes, angles and depths. On one hand, this perspective offers the possibility of looking with the most maximum intensity possible, without being seen, such as painters do. This perspective offers a useful and interesting vision, especially as it is completely devoid of vanity but potentially rich in splendor. Who knows? Perhaps we love this Painted City in part because we are bit tired of ourselves. People, look far and wide! A painter is a specialized animal. He does not live everywhere but seeks the habitat most adapt to him, in the search of spaces and illuminations. If the painter finds his habitat, he is happy (at least in his way) and will not search elsewhere. In the alternation of events (that which we often call chance or destiny) sometimes it is not us who arrive at certain places, but rather the places which come to us. Nonetheless: for years, Milan is Russo’s location, it is the scene that precariously fills his eyes. One hundred years ago, the variable Milan scene attracted another artist who was also born in Calabria (by chance), but sought and found glory in Milan. We are speaking of Umberto Boccioni. And thus we have the burned pieces of a Rome amongst the building sites, or one of the Milan workshops, immersed in a rude, optimistic morning, confining and bursting with light. For Boccioni, the trembling city of Milan climbed. With its skyscrapers, Milan climbs even higher today and a sensible Calabrian painter must observe and capture it. Russo does this with ease and a drastic color palette. The essential opalescence, the dash of gray iridescence, as generated by fogs and vapors, interrupted here and there by light flashes and scratches, and plaques of pure color all contribute to the sense of the images’ truth and resonance. Futuristic exultation no longer exists? Let’s face it, and by the way how could it? However, a certain sensation persists, even in these paintings. The city seems to appear as if for the first time, beautiful and spectral, such as at dawn. Ultimately, this reinforces the sense of a very intimate membership, suggesting that the city is a correct place for contemplation. The city is an adult and happy state where one can experience solitude without suffering it. I believe that Russo’s Milan landscapes will truly delight those who, every once in awhile, discover the intense poetry of the metropolis roads along which we walk daily. For those who believe metropolis roads lack poetry, I would thus suggest looking for aesthetic beauty in Damian Hirst’s dead animals or throwing a lazy eye toward Maurizio Cattelan’s idle humor. And then they inevitably continue to look at the city, at those streets and at its parts, still feeling disturbed and uninspired, perhaps even more melancholy due to the fact that paintings are born from it. Question: in the end, what is it that, here, continues to attract us? A short list of responses: an extremely tight perspective in a profligate blue-red-yellow flash which resembles the Stazione Centrale, its ferrous facade and its tracks to an underground tunnel, exactly what physicists build for their experiments, where every encounter between particles is a marvel. And then there is the vehement Duomo, which one would never have expected to see again in a painting (shame on those who don’t know or don’t want to paint church facades!). Here the Duomo appears brazenly unexpected, a presence born from a laic gesture of devotion, or perhaps by a delayed encounter. Who knows? Perhaps it was like this that the Santa Teresa di Lisieux church appeared to Andreas in Joseph Roth’s novel. Do you see the vagueness of a mind of one who travels across artistic disciplines? It is almost vagrant. I don’t have time to follow the R line which mysteriously brings Russo to Roth, even though it legitimately comes to me nonetheless. It is a contemporary of the Austrian writer who could even share the final scene with Russo. Maurice Utrillo was the artist who in a few shining white walls made his desert Paris unforgettable and it is he who could be defined as Alessandro Russo’s distant progenitor. Finally, after these swaying reflections, I am struck by all of Russo’s tall and solitary buildings, which are almost shadowy. It is uncertain if they will vanish or remain, or if they will be undone or resist. There are many of them in Russo’s work, almost as his signature. They are ardently and darkly constructed, profiled in the dim background light, on the evanescent horizon line. They are indeed our domesticated guard towers, indecipherable sentinels, and, thus, perfectly adapt to us, the invisible passersby.
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